Taranto, la rivolta delle vedove “Mai più ricatti tra lavoro e salute”
Rabbia e veleni di una città che vive e muore di Ilva. E gli operai con i figli malati: “Sì, aveva ragione chi protestava”
di CONCITA DE GREGORIO
COSA c’è di diverso è che gli muoiono in mano i figli bambini e ora sanno perché. Che non possono mangiare il formaggio delle loro pecore né le cozze del loro mare. Che i pediatri negli ospedali congedano le puerpere raccomandando omogeneizzati al posto delle prugne cotte. E latte in polvere anziché quello del seno perché nella frutta degli alberi e nel latte delle madri c’è il veleno, e ora sanno qual è. Cos’è cambiato sta tra la culla e il tavolo da pranzo, dentro le vite di ciascuno. I figli che impallidiscono di leucemia, il cibo che sparisce dai piatti. L’unica cosa che conta, l’unica cosa seria: nascere e crescere i figli, mangiare.
È così che dopo tutti questi anni, quasi cinquanta dalla posa della prima pietra della Fabbrica, la voce di quelli che trenta, venti, dieci anni fa dubitavano e obiettavano, poi scrivevano e chiedevano, poi protestavano, poi urlavano piangendo e maledicevano – pazzi, esagitati, estremisti, anime belle ambientaliste, nemici del lavoro e del popolo – è così che poco a poco quella voce sottile e molesta è diventata la verità di tutti. Se si muore, a Taranto, è colpa del “minerale”. Così lo chiamano le vedove analfabete che ti aprono casa per mostrarlo che a chili si accumula nero sotto le loro scope, le madri che lavano la faccia ai figli al ritorno da scuola, quando c’è vento i bimbi arrivano a casa con la faccia che brilla come se fossero truccati per andare in discoteca. Il minerale. I residui di ferro che luccica, la polvere nera che vola e si fa aria, entra nei polmoni e poi nel sangue. Nel minerale il veleno: la diossina che per decenni si è mangiata gli uomini da dentro, mascherata da fatalità destino malasorte. A volerci credere, a doverci credere “perché noi lo sentivamo il rumore la notte e la vedevamo la polvere nera ma, ci crede?, ci faceva piacere perché erano il rumore a la polvere che ci davano da vivere. Gli uomini uscivano per andare a lavorare e portavano i soldi a casa. Che altro dovevamo volere”.
Poi sì, certo. Ora c’è la decisione di Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto che ha disposto il sequestro dell’area a caldo del-l’Ilva, e la bonifica che deve passare per il blocco della produzione. Un’acciaieria non si spegne staccando la spina, però. Ci vogliono mesi, e in questi mesi – proprio questi, adesso – ci sono i ministri che scendono in Puglia e trattano coi Riva, i padroni, improvvisamente e finalmente inclini a versare milioni per la bonifica. Ci sono i politici che dispongono ordinanze (“vietato passeggiare e far giocare i bambini nelle strade del quartiere Tamburi”, per esempio, provate a immaginare come suona alle orecchie di chi ci abita). L’imminente e prossima distruzione di venti tonnellate di cozze alla diossina, pescato per un valore di quattro milioni di euro: la rovina. Le signore della borghesia tarantina che manifestano per strada, i giornali e i siti che denunciano le mazzette, la corruzione, il silenzio pagato perché è chiaro – si mostra ora con l’evidenza delle prove – che il silenzio delle istituzioni, dei partiti e dei periti, di questa Chiesa gommosa e opulenta è stato comprato, negli anni, dai Riva. Col lavoro che avevano da distribuire agli ultimi e coi soldi in busta a tutti gli altri. “Non prenderemo più donazioni dal-l’Ilva”, dice il nuovo vescovo con questo archiviando come peccato veniale i milioni di lire e poi di euro che i suoi predecessori, ultimo monsignor Papa, hanno incassato nei decenni con causali verosimili e persino meritorie: ristrutturare l’oratorio, rifare la facciata della chiesa, finanziare la mensa dei poveri. Assegni da 300 mila euro. In cambio, tolleranza. Braccia che si allargano e occhi al cielo, cosa vuoi figlia mia, fatti forza, è il volere del Signore.
Ecco, sì, tutto questo. Ma a starci a Taranto, a viverci qualche tempo che non sia il tempo di girare due riprese per la tv, ti fermano per strada e ti dicono in dialetto e in italiano che quel che c’è di nuovo non è una sentenza, una perizia, un controllo che di notte quando la fabbrica brucia come un incendio non si è fatto – in cinquant’anni – mai. No. Quel che c’è di nuovo è un piccolissimo sollievo figlio del contagio. I predicatori solitari, i ‘pazzì e i ‘fanaticì che giravano coi cartelli e affiggevano targhe sui muri dieci anni fa oggi si voltano attorno e con un sorriso di sollievo accolgono chi arriva. Chè poco a poco anche gli operai cominciano a scendere dai balconi giù per strada: quelli che “si deve vivere, l’Ilva è lavoro”, quelli che alle assemblee non c’erano mai perché facevano gli straordinari per arrivare a 1500 al mese e che si fottano le chiacchiere. Loro, gli operai. Ora ci sono, non tanti ma tanti, alle riunioni e ai cortei fino in prefettura, ad ascoltare Michele Riondino il giovane Montalbano della tv che davanti al mare caraibico degli scogli di San Vito dice “io sono nato dove siete nati voi, ai Tamburi, e vi dico che dobbiamo fare noi quello che non hanno fatto mai i sindacati, i partiti di sinistra. Siete tutti, siamo tutti sotto ricatto. I tarantini sono sempre stati merce di scambio, numeri che valgono solo quando c’è da votare. L’Ilva ha fabbricato acciaio e paura. Ma l’altro giorno, in piazza, ho visto un’Apecar di operai che sembrava un carrarmato. E’ quello che serve, servite voi: è venuta l’ora di farci sentire”.
Trecento persone ad ascoltarlo, un’ovazione. Può più il Montalbano della tv di cento professori, perizie, tribunali. I Tamburi, dove è nato Riondino, è il quartiere che confina con la fabbrica. Le case erano lì da prima, la gente negli anni Sessanta ci andava a vivere per far respirare i figli, perché era un po’ più in alto e c’era l’aria buona. Tamburi come il rumore di tamburi che faceva l’acqua nell’acquedotto romano. Oggi è il posto dove non si può passeggiare, ha detto il sindaco. Le case toccano il muro di cinta dell’Ilva e quello del cimitero. E’ tutto lì, quello che serve per vivere e per morire: le tombe affacciano in fabbrica, ci si resta anche da morti. Per strada cani randagi, quasi cento taverne dove andare a ubriacarsi la sera, deserto di uomini, cartelli di “vendesi” ovunque. La gente se ne va. Ha venduto casa Franco Fanelli, 55 anni, dopo che hanno diagnosticato la leucemia a sua figlia Annachiara, 13. “Quando siamo arrivati in ospedale ho trovato nella stanza un operaio che conoscevo bene, era uno di quelli che quando manifestavamo per strada ci guardava dalla finestra e chiudeva le tende. Era lì con la figlia malata di tumore. “Dobbiamo far chiudere tutto”, mi ha detto in dialetto. Ora lo dici?, gli ho risposto. E lui: “che ne sapevamo, prima?”. Ecco, ora lo sa”.
Fanelli ora sta a Leporano, lontano dal minerale. Annachiara ha finito la chemio e porta un filo di trucco, forse l’anno prossimo tornerà a ballare. Le sono ricresciuti i capelli, erano biondi ora sono neri, pazienza. Ride, esce, il ragazzino l’aspetta. Il rosario di suo padre Franco è questo: morti di tumore entrambi i genitori, morta una sorella e malati (intestino, prostata, fegato) altri tre fratelli di nove, quattro su nove. morta la prima moglie Antonella, “un sarcoma che aveva 18 anni, io 24, l’ho sposata due mesi prima che se ne andasse, era il suo desiderio”. Malata di leucemia la figlia. Fanelli sono vent’anni che combatte il veleno dell’Ilva che fa morire di cancro vecchi e neonati, famiglie intere. “Ho calcolato che sono morte 70 mila persone in 15 anni. Ma nessuno lo dice, lo tengono nascosto. Qui a Taranto non c’è il registro dei tumori, lo sa? Non le sembra pazzesco? E non c’è nemmeno l’oncologia pediatrica in ospedale. Bisogna andare a Bari, o al Nord. Così quelli che si ammalano e muoiono fuori, cioè quasi tutti, non entrano nel conto e le statistiche stanno a posto”. All’ospedale di Taranto non c’è l’oncologia pediatrica. Al Moscati, che domina l’Ilva dall’alto, i volontari dell’Ail, associazione italiana leucemie, hanno allestito con le donazioni una stanzetta minuscola, due letti e una culla, per i bambini. “Quasi clandestina”, sorride Paola D’Andria, volontaria Ail. In corsia saluta Anna, che ha vent’anni le unghie rosse la testa calva e la febbre, oggi, “viene spesso dopo l’autotrapianto”. “Quello che succede e quello che non succede, a Taranto, è voluto: è tutto voluto.
Ora arrivano gli operai, perché si ammalano i loro figli. Ma fino a ieri ci guardavano con sospetto tutti. Anche la politica, che delusione la politica. E dire che il sindaco sarebbe un pediatra”. Il sindaco, Ippazio Stefàno, è un pediatra. Uomo di Vendola, sostenuto da una lista civica, chi meglio di lui avrebbe potuto capire, sapere. E invece sulla sanità si sono arenate anche tante speranze del “rinascimento pugliese”, che certo Vendola ha fatto quella legge che ha abbassato drasticamente il tasso di diossina ma è come svuotare con un tappo l’acqua del mare. E’ tardi, è poco. E ora Don Verzè è morto e il San Raffaele forse non si fa più, che doveva sorgere proprio a Taranto, “ma noi abbiamo bisogno di un ospedale privato o di far funzionare
quelli pubblici, mi dica?” domanda l’ingegner Biagio De Marzo. Un uomo serissimo e inflessibile, una miniera di dati e di sapere. Per anni dirigente Ilva, prima responsabile della manutenzione dell’area ghisa, quella più pericolosa, poi dell’intero stabilimento. Un “pentito” dell’Ilva. “Un giorno, qualche anno fa, mi hanno chiamato da Peacelink per chiedermi un parere sui dati della diossina. E’ stata una folgorazione. Ma come? Ho lavorato tutta la vita sotto quella ciminiera e di questi dati non sapevo nulla? Ho controllato, ho capito, mi sono sentito ingannato, mi sono messo al lavoro perché non si ingannino gli altri”. De Marzo guida Altamarea, associazione fucina di interrogazioni al ministero, alle commissioni parlamentari, esposti in prefettura, al sindaco e al governo. Tutto quel che c’è da sapere è lì. Del resto è da Peacelink, con cui collabora, che tutto questo è partito.
Dall’analisi sul formaggio delle masserie fatto fare da loro: erano pieni di diossina, i formaggi. Sono state abbattute migliaia di pecore, gli allevatori risarciti con un’elemosina hanno fatto ricorso, il tribunale ha disposto una sua perizia ed ecco finalmente i dati, questi non di parte. I dati dei periti del Tribunale. La diossina nel latte è a livelli altissimi e ha un’impronta digitale identica, è sempre la stessa. Da dove arriva?, si sono chiesti all’ombra delle canne fumarie bianche e rosse. L’inchiesta di Patrizia Todisco è cominciata così. Sotto lo sguardo di Franco Sebastio, il capo della Procura, che da tutta la vita batte sulle ombre dell’Ilva: se a questo siamo è per l’ostinazione di chi, quando non si usava, non ha avuto paura. Quando non si usava è quando – dieci anni fa – Giuseppe Corisi, operaio, ha fatto mettere davanti a casa sua, in via de Vincentis ai Tamburi, quaranta metri dalla fabbrica, una lapide che è ancora lì, annerita. “Nei giorni di vento da Nord veniamo sepolti da polveri di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale Ilva. Per tutto questo gli abitanti MALEDICONO coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare”.
Maledicono, maiuscolo. Che siate maledetti: la rabbia e l’impotenza insieme. Giuseppe è morto l’8 marzo di quest’anno per un tumore ai polmoni, a 64. Non gli hanno riconosciuto la malattia professionale, la famiglia non avrà indennizzo. Una fatalità. Aprono la porta di casa Graziella, la vedova, le figlie Stefania e Sabrina, il genero Luciano, i nipoti Angelo, Giuseppe, Suami e Gaia. Angelo, 13 anni, racconta che il giorno prima di morire il nonno era seduto lì, su quella poltrona, e lo aiutava a scrivere il tema “Parla di una persona che ammiri”. “Io avevo deciso di farlo sul nonno, che ha combattuto sempre e – ho scritto – combatte ancora contro l’inquinamento del minerale che ci uccide. Nonno mi ha detto ‘Angelo, prometti che dopo potrò contare su di te, che non ti arrenderai’. Io non ho capito dopo cosa, perché nonno stava bene. Però l’indomani, il lunedì, è andato all’ospedale e il pomeriggio è morto e io non l’ho visto più, l’ultima volta è stato su quella poltrona e rideva”. L’ultimo giorno, il lunedì, Giuseppe Corisi ha telefonato a casa e ha chiesto a sua moglie che affiggessero sotto la loro finestra, proprio davanti alla lapide della maledizione, un’altra lapide. L’aveva fatta preparare dagli amici. Graziella, la vedova: “Voleva che ci fosse scritto il numero. Non il suo nome, ma il numero. ‘Morto numero … per neoplasia polmonare’. Ma il numero non c’è perché non si sa quanti sono. Non lo possiamo sapere. Allora ha detto: mettete ennesimo. Mettetela subito”.
Quando si affacciano tutti alla finestra per salutare, gli otto Corisi, si affacciano su quella lapide. Qui viveva Giuseppe, “ennesimo morto per neoplasia polmonare”. Dietro un’ipocrita inutile barriera di alberi – le “colline ecologiche”, buone per la coscienza di qualcuno – che separa la casa dalle montagne di polvere di acciaio. Nel ’60 si decise di collocare a ridosso della città e non al lato opposto della fabbrica, come sarebbe stato logico e dovuto, la zona di stoccaggio e di prima lavorazione a caldo. Si risparmiava qualche metro di nastro trasportatore dei materiali dal porto, così. Il “peccato originale”, quella decisione, occultata dall’immediata costruzione della basilica di Gesù divin lavoratore. Una grande chiesa, un grande mosaico con Gesù circondato di operai. Che benedizione, il lavoro. I Corisi, dalla finestra sulla lapide che MALEDICE, salutano.
(27 agosto 2012)